Il parametro del 3% Deficit-PIL fu inventato a caso

Sì, sì. Avete capito bene. A caso. E la cosa sottolinea in maniera lamante come spesso a monte di un presupposto complotto della finanza internazionale ci siano solo l’inettitudine dei governanti, la fretta dettata dalla visibilità e da una visione miope della politica, il combinarsi casuale di concause.

La Repubblica intervista Guy Abeille.

Vi offro una chiave di lettura. Come mai un quotidiano pro-sistema come Repubblica se ne esce con questo articolo? Abbastanza facile capirlo. Accusare il parametro del 3% è perfettamente in linea con l’idea del governo in carica. Secondo Renzi e il suo entourage di pseudo-economisti, il problema è l’austerità. E quindi l’impossibilità di crescere a causa dell’assenza di investimenti pubblici produttivi, bloccati dalla percentuale del 3%. Come spiega bene Alberto Bagnai si tratta di un falso problema. E questo perché se gli olando-tedeschi allentassero i cordoni e permettessero a Renzi di spendere oltre il 3% quello che succederebbe è che i soldi in più in tasca agli acquirenti finirebbero dritti in importazione di convenientissimi prodotti tedeschi. Ergo, la bilancia dei pagamenti sarebbe di nuovo in deficit. Ergo il problema innescato dalla crisi (debito estero NON DEBITO PUBBLICO) peggiorerebbe invece di migliorare. Tutto questo serve a distogliere l’attenzione dal problema vero, ossia la rigidità del cambio in un’area valutaria non ottimale e in assenza di un sistema fiscale unico. In sostanza dal problema rappresentato dall’euro.

Ma si sa, il giornale di De Benedetti di questa roba poco si interessa. Renzi, Stan Del Rio e Olive Padoan poco sanno o, se sanno, sono troppo intenti nell’intrattenimento ilare delle genti italiche prossime alle ferie estive.

Nonostante ciò l’intervista è interessante per capire l’inquadramento mediatico dei fenomeni e la loro strumentalizzazione. Nonché la superficialità di uomini e donne che rivestono ruoli cruciali nelle strutture gestionali di interi Paesi. E come sia facile in un mondo di idioti che un’idiozia diventi un dogma.

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Si sente in colpa?

«Per nulla. Anzi, orgoglioso».

L’uomo a cui dobbiamo Finanziarie lacrime e sangue, innumerevoli salassi e i nostri mali europei, è seduto in una brasserie del quinto arrondissement. Si chiama Guy Abeille, meglio conosciuto come “Monsieur 3%” perché rivendica di aver ideato discussa regola del 3% di deficit sul Pil, croce di tanti governanti dell’Ue. Nessuno conosce il suo nome, tutti conoscono e temono invece la sua invenzione.

«Fu una scelta casuale, senza nessun ragionamento scientifico» confessa adesso l’economista matematico di 62 anni. Anche se la Francia è tra i paesi meno rispettosi del limite imposto nel Patto di Stabilità (quest’anno il deficit è al 3,6%) , la norma-faro è nata a Parigi oltre trent’anni fa. Abeille, oggi in pensione, allora lavorava al ministero delle Finanze. Come si arriva a questo numero simbolico? «Quando François Mitterrand venne eletto, nel 1981, scoprimmo che il deficit lasciato da Valery Giscard d’Estaing per l’anno in corso non era di 29 ma di 50 miliardi di franchi. Sembrava anche difficile fermare l’appetito dei nuovi ministri socialisti. Avevamo davanti uno spauracchio: superare 100 miliardi di deficit. Mitterrand chiese all’ufficio in cui lavoravo di trovare una regola per bloccare questa deriva».

Perché proprio il 3%?

«Avevamo pensato in termini assoluti di stabilire come soglia massima 100 miliardi di franchi. Ma era un limite inattendibile data l’alta fluttuazione dei cambi e le possibili svalutazioni. Quindi decidemmo di dare il valore relativo rispetto al Prodotto interno lordo che all’epoca era di 3.300 miliardi. Da qui il fatidico 3%. Qualche mese dopo, Mitterrand parlò ufficialmente della regola per il controllo dei conti pubblici. L’obiettivo principale era trovare una regola semplice, chiara, immediata per contenere le spese dei ministeri. Trovo divertente che questa norma imposta dai tedeschi sia nata proprio in Francia Ne sono orgoglioso ria si chiuse con uno squilibrio di 95 miliardi. Ma Laurent Fabius, allora premier, anziché dare la cifra parlò un deficit pari al 2,6% del Pil. Faceva molta meno impressione. Così è cominciato tutto».

All’inizio era soprattutto uno slogan??

«L’obiettivo principale era trovare una regola semplice, chiara, immediata per contenere le spese dei ministeri. Ma dovevamo anche farci capire dall’opinione pubblica francese e dai mercati internazionali, non tanto per i tassi di interesse quanto per i rischi delle speculazione sul-la moneta nazionale. Oggi che esiste l’euro pochi lo ricordano ma all’epoca era quella la minaccia che faceva tremare gli Stati».

Come si è arrivati a farne una regola per gli altri paesi europei?

«La regola aveva funzionato bene negli anni Ottanta: i governi francesi non hanno sforato il 3%, tranne nel 1986. E’ stato Jean-Claude Trichet, allora direttore generale del ministero del Tesoro, a proporre questa norma durante i negoziati per il Trattato di Maastricht. Per paradosso, la Germania ha adottato la norma del 3%di deficit sul Pil fino a farne uno dei punti centrali del Patto di Stabilità. Trovo divertente che questa regola nata quasi per caso e oggi imposta dai tedeschi sia nata proprio in Francia».

Davvero non c’erano grandi teorie economiche dietro al 3%?

«Dovevamo fare in fretta, il 3% è venuto fuori in un’ora, una sera de1 1981. Qualche anno dopo ho lasciato il ministero delle Finanze per lavorare nel settore privato. Immaginavo che ci sarebbero stati degli studi più approfonditi, in particolare quando il parametro è stato esteso all’Europa. E invece il 3% rimane ancora oggi intoccabile, come una Trinità. Mi fa pensare a Edmund Hillary che quando gli chiesero perché aveva scalato l’Everest rispose: “Because it’s there”. Da quella sera del 1981 in cui il 3% è uscito fuori un po’ per caso, è diventato parte del paesaggio delle nostre vite. Nessuno più che si domanda perché. Come una montagna da scalare, semplicemente perché è lì


Il finanziamento della politica: esiste una soluzione?

ObamaApparentemente no.  Tony Podesta, uno dei più influenti lobbisti americani, riflette sul sistema di finanziamento USA e sul futuro di quello italiano.

Le sue conclusioni sono:

  1. I soldi come l’acqua trovano sempre uno sbocco
  2. Ogni scandalo genera lo scontento di qualcuno e innesca una riforma, che non nasce dalla riflessione ma dall’emergenza
  3. Ognuna di queste riforme genere effetti inattesi. Dopo, lo scenario non è mai come il riformatore se lo aspettava.

Di seguito la sua riflessione storica sul sistema di finanziamento americano. Molto interessante.

Fonte: ferpi.it

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Italy has a new government. Of course, Italy has had about a government a year since 1948.

But this time is different. The Renzi government’s mandate can be summed up in one word: “change”. Remembering that President Obama’s campaign slogan in 2008 was “Hope and Change,” I know how powerful that word can be.

Change isn’t easy. Not in the United States. And not in Italy.

As you know, this isn’t the first time that the Italian people have demanded change, and the political system has tried to respond.

In the early ‘90s, the “Clean Hands” inquiries triggered a political upheaval. Traditional parties disappeared. The electoral system was overhauled. New leaders emerged. The “Second Republic” was born.

Since then, governments have lasted somewhat longer, and governance became more important than ideology.

While the political earthquake of the ‘90s was triggered by corruption, the central issue today is how effectively public money is spent. Inevitably, public financing of political campaigns is coming under fire. Why should the taxpayers be subsidizing political campaigns? But, if these campaigns depend completely on private donors, how can we keep the special interests from controlling politics and policymaking?

Americans have been struggling with these questions for four decades or more. I can’t offer easy answers. But I can share our experience with campaign finance reform.

Big Point

The American experience was summed up by two Justices of the US Supreme Court — Sandra Day O’Connor and John Paul Stevens. As they wrote in a decision upholding a campaign finance reform law: “Money, like water, will always find an outlet.”

In a modern, democratic country such as the United States – or Italy – the government makes important decisions. People and organizations of all kinds will try to spend money to elect the officials who make these decisions. And their money, like water, will always find an outlet.

Looking back over the last four decades, campaign finance reform has followed the same pattern, over and over again. When the American people believe that campaign funding and spending has become an intolerable scandal, reforms are enacted.

But then these reforms are, if you’ll forgive my using that word again, watered down. And then, there are new reasons for Congress to enact new reforms.

In short, campaign finance reform laws end up exemplifying another law: “the law of unintended consequences.” No initiative ever turns out as originally planned. This is something you should remember as you reform your political system. Good intentions do not necessarily translate into good results, especially when money meets politics.

Watergate and Reform

For most of American history, campaign finance was like the Wild West – without a sheriff. As recently as the 1960s and 70s, Herman Talmadge, a Democratic Senator from Georgia used to collect cash contributions from his supporters and keep the money in a large inside pocket of his overcoat. In 1979, the Senate Ethics Committee investigated his use of campaign money. In his memoirs, published in 1987, Talmadge wrote, “I wish I’d burned that damned overcoat.”

And then came Watergate. Watergate wasn’t just a burglary and a cover-up. It was a financing scandal. “Deep Throat” — the FBI official who gave the journalist Bob Woodward important tips to uncover the scandal – famously advised him, “Follow the money.” The money trail showed that the Watergate break-in and, later, the “hush money” were financed with secret campaign contributions.

In 1974, in the wake of Watergate, Congress passed amendments to bolster a relatively weak law enacted two years earlier.

The 1974 amendments were the strongest and widest-ranging campaign finance reforms in American history to that point. These amendments restricted the influence of wealthy individuals by limiting the dollar amounts for individual donations to candidates for President and Congress. And they provided public financing of presidential campaigns, together with spending limits for candidates accepting public financing;

Unintended Consequences: The Growth of PACs

But political money, like water, will find an outlet. By restricting the amount of money individuals could contribute directly to congressional campaigns, the campaign finance reform had an unintended consequence: the growth of the Political Action Committees. PACs pool campaign contributions from their members and donate these funds to campaigns.

Most PACs are sponsored by corporations, trade associations, and labor unions. Because PACs have higher contribution limits than individual donors, political money went to the PACs, not directly to the candidates.

Currently, about 4,000 PACs contribute money to campaigns for federal office and they account for about 23 percent of all contributions to candidates for the US House and Senate.

Equating Campaign Spending with Free Speech

Almost as soon as campaign finance reforms were put in place, they were challenged from the political right and left. New York Senator James Buckley, a conservative Republican, and former Minnesota Senator Eugene McCarthy, a liberal Democrat, filed a lawsuit claiming the law was unconstitutional.

In its decision, the Supreme Court ruled that limiting spending by candidates, their committees and independent expenditures imposed “direct and substantial restraints on the quantity of political speech.”

This ruling established the idea that money equals speech, protected under our First Amendment. That idea that has since been used to weaken other restrictions on campaign contributions and spending.

Another Unintended Consequence: Soft Money = More Spending

After 1976, political campaigns became increasingly dependent on “soft money”: money without a specific purpose given to political parties. Because this money wasn’t directly used to support a specific federal candidate, it wasn’t regulated.

Overall, total presidential campaign spending increased from $66.9 million in 1976 to $343.1 million in 2000.

A New Campaign Finance Reform: McCain-Feingold

Once again, there was a growing public demand for campaign finance reform. The next major law co-sponsored by Sen. Russ Feingold, a Wisconsin Democrat, and Sen. John McCain, an Arizona Republican, was enacted in 2002.

The law, known as McCain-Feingold:

  • Banned national political party committees from soliciting or spending “soft money”; and
  • Barred issue ads mentioning a candidate’s name — known as electioneering — that were financed by corporate or union money within 60 days of a general election.

Once again, political money, like water, found an outlet. Activity in tax-exempt nonprofit groups outside the parties increased, because their spending wasn’t regulated.

Weakening Campaign Finance Reform: Citizens United and other Court Decisions

And, once again, the Supreme Court watered down campaign finance reform. In 2007, the Supreme Court struck down McCain-Feingold’s ban on issue ads that did not expressly support election or defeat of a candidate.

In 2010, in Citizens United v. FEC, the Supreme Court ruled that the First Amendment protected independent expenditures of corporations and unions and allowed them to advocate for or against candidates, such as funding political ads within 60 days of an election.

While still not allowed to contribute directly to federal candidates and national party committees, corporations can now fund political activity and advocacy from their treasuries.

Russ Feingold lost his Senate seat in 2010 to Republican Ron Johnson, who did not bind himself to the limits on campaign spending that Feingold imposed on himself. And John McCain lost the Republican presidential nomination in 2000 to George W. Bush and the presidency in 2008 to Barack Obama. Unlike McCain, Bush and Obama refused public financing and spending limits.

Unintended Consequence: The Growth of Super PACs

The Citizens United ruling gave rise to Super PACs. Super PACs can raise unlimited money from individuals, corporations or unions and can expressly advocate for a candidate.

While Super PACs aren’t supposed to coordinate with candidates or their campaigns, former campaign staff frequently run PACs that generally support that candidate.

Partly because of Super PACs, campaign spending in the 2012 presidential election reached unprecedented levels. Super PACs also extended the Republican primary season by keeping candidates such as former Speaker Newt Gingrich and former Pennsylvania Senator Rick Santorum in the race long after Mitt Romney had become the clear frontrunner.

Weakening Campaign Finance Reform: Wealthy Donors Can Give More Money

Meanwhile, it’s harder and harder to build barriers against political money.

On April 2, 2014, the Supreme Court struck down aggregate limits on how much an individual can contribute in a two-year period to all federal candidates, parties, and political action committees, combined.

While individuals are still limited in how much they can give to any single candidate or party directly for each election, now an individual can give the maximum allowed contribution amount to each and every candidate.

This decision was widely reported as benefiting large donors who can give more money than before. But some of us may not appreciate that we can no longer tell fundraisers, “Sorry, but I’m maxed out.”

Public Financing Declines

In the US as in Italy, public financing of political parties is declining. 2012 was the first presidential election since President Nixon’s re-election in 1972 when neither major party candidate accepted public financing and the spending limits that come with it. Instead, spending by the presidential campaigns topped $2 billion (Obama, $1.123 billion; Romney $1.019 billion). On top of that, Super PACS supporting Romney spent $292 million, and Super PACS supporting Obama spent $258 million.

With the growth of Super PACs – and with President Obama creating an independent apparatus — the formal party organizations are relatively less important. Instead, independent organizations are setting the agenda for the national debate.

Disclosure Requirements for Lobbyists

Now you may be wondering, what about lobbyists?

Unlike campaign finance, where the water has to find a new outlet, there are no limits on the amount spent on lobbying. Corporations, organizations, and individuals can spend as much—or as little, unfortunately — as they want on lobbying activities.

Total spending on lobbying has more than doubled in the past 15 years, from $1.46 billion in 1998 to $3.23 billion in 2013—-and that’s down from $3.55 billion in 2010.

Lobbying Disclosure Act

As with campaign finance, lobbyists must register and must disclose their spending and activities. For many years, lobbying registration was lax and infrequently observed. In 1995, Congress passed the Lobbying Disclosure Act, requiring lobbyists to file reports twice a year to be disclosed publicly and with the Congress. These include:

  • Estimates of their income and spending;
  • The names of individuals, agencies and houses of Congress lobbied;
  • And issues lobbied to be disclosed publicly with the Congress.

As we’ve seen before, scandal begets reform. After the Jack Abramoff lobbying scandals of 2006, Congress strengthened the Lobbying Disclosure Act to require disclosure every three months, also including:

  • Previous government positions;
  • Federal campaign contributions and donations benefiting government officials
  • And more stringent criminal penalties for noncompliance.

Foreign Agents Registration Act

For lobbyists representing foreign governments, the disclosure requirements are even more stringent.

Enacted in 1937 to combat Nazi sympathizers, the Foreign Agents Registration Act requires private individuals advising or representing a foreign government or political party before the US government or public to register with the US Department of Justice.

“Agents” must disclose their home address, year of birth, country of citizenship, all political contributions, the US officials or media they contacted and the topics they discussed, as well as how much they earned and how much they spent on behalf of a foreign client. Also, any “informational materials” disseminated broadly must be submitted to the Department of Justice within 2 days.

Lessons for Italy

So what does this all mean for Italy? Here in Italy, the strongest demand for change comes from the people themselves. The combination of top-down awareness and bottom-up expectations creates a rare opportunity.

The inevitable nexus between politics and money – which Rome has known for 2,500 years – is coming under strict scrutiny. People want to know: where the money comes from; who gets the money; and how they spend it.

Regulation of campaign financing should be clear, understandable and, above all, enforceable. It should create a system of transparency and accountability, not rigid limitations that would not be respected anyway.

Otherwise – and this is the lesson to be drawn from the American experience – the law of unintended consequences will inexorably kick in.

Political money, like water, will find an outlet. But we need to regulate the flow of funds so they do not drown our democracies.


Fottuto negro. Stronza puttana se ci riprovi ti ammazzo.

violenza_donneQualcuno si sente toccato da queste frasi? Turbato in qualche modo nella propria sensibilità? Preferirebbe che in un libro, in un film o in un’opera multimediale di qualunque genere non venissero pronunciate? O magari che non ci fossero scene di stupri, omicidi, palesi discriminazioni nei confronti degli omosessuali, violenza gratuita sugli animali? O magari vorreste essere avvisati della loro presenza all’interno dell’opera? O magari vorreste che almeno i vostri figli lo fossero? Quando vanno al cinema. Quando all’Università preparano l’esame di letteratura.

Se siete fra queste persone sarete d’accordo con la recente iniziativa dell’assemblea degli studenti di un Università straniera. Scioccati dalle scene narrate in alcuni classici della letteratura, hanno chiesto ai loro docenti di applicare ai volumi delle “etichette” che li avvertano della presenza di contenuti “sensibili”.

Immagino stiate pensando a giovanotti turbantati di un ateneo talebano di Kabul o Islamabad. E invece no. Sono i sensibili ventenni dell’Università della California a Santa Barbara. Uno dei templi del pensiero liberal e progressista a stelle e strisce.

Per capirsi, i trigger warning (si chiamano così le “etichette” di cui sopra) li inventò il movimento femminista. E furono pensati per rendere esplicito al fruitore un contenuto sciovinista o discriminatorio. Una cosa che a me sa di idiozia già nella sua versione originale. Figuriamoci in quella di plastica 2.0.

I testi in questione (ma una volta creato il precedente quale testo non rischierebbe di essere messo all’indice?) sono The Great Gatsby (misoginia e violenza sulle donne), Huck Finn (razzismo), Things Fall Apart (colonialismo e persecuzione religiosa), Mrs. Dalloway (suicidio), The Merchant of Venice (e qui i trigger sono innumerevoli). Non parliamo quindi di autori underground, dei minimalisti feroci alla Palahniuk o della generazione pulp di Bukowski. Ma di Fitzgerald, Twain, Achebe … e perfino Shakespeare.

In quest’ottica uno studente uno studente meno intorpidito dei suoi colleghi di Santa barbara è intervenuto sottolineando “What kind of trigger warning would be put on the Bible. It would start “with nudity and fratricide in the Garden of Eden and moving on to mass drowning (Noah), polygamy, adultery, etc.” (che tipo di trigger warning bisognerebbe mettere sulla Bibbia. Inizierebbe con “nudità e fratricidio nel Giardino dell’Eden” e proseguirebbe con “annegamento di massa (Noè), poligamia, adulterio, ecc.”

Scrive mattia Ferraresi su Il Foglio

“Simili richieste sono state formulate all’Università di Rutgers, del Michigan e alla George Washington University. All’Oberlin College, in Ohio, gli studenti osservano: “I trigger sono rilevanti non solo per quanto riguarda gli abusi sessuali, ma per tutto ciò che può causare un trauma. Occorre fare attenzione al razzismo, al classismo, all’eterosessismo, al cisessismo e all’ableismo, e ad altre questioni che generano privilegio o oppressione”. Cisessismo e ableismo sono rispettivamente la discriminazione dei transessuali e dei disabili: si può creare un – ismo da additare per qualunque categoria.

Questa tendenza del politicamente corretto è particolarmente rilevante nelle università liberal, che incidentalmente sono le stesse che in questo mese di chiusura dell’anno accademico si sono distinte per avere impedito a ospiti culturalmente non allineati di parlare ai laureati. E sono ideologicamente affini a quelle in cui circola l’idea di abolire la libertà accademica e ammettere esplicitamente che il criterio con cui si invitano gli ospiti a partecipare al dibattito è quello del conformismo delle idee. Damon Linker, giornalista di The Week, parla di “moralismo pigro” delle università liberal, che “si stanno trasformando in istituzioni votate all’isolamento degli studenti dalla provocazione e dal libero pensiero, quando invece dovrebbero esporli”. “L’idea – ha spiegato al New York Times Lisa Hajjar, professoressa di sociologia a Santa Barbara – è che gli studenti non dovrebbero essere costretti ad affrontare argomenti che li mettono a disagio”, un’idea “assurda e persino pericolosa”. Invece di perseguire la conoscenza di autori e contenuti oggettivamente importanti, e occasionalmente offensivi per la sensibilità di qualcuno, le università cercano il “comfort psicologico e intellettuale”, come dice Greg Lukianoff, presidente della Fondazione per i diritti individuali nell’educazione, faccenda che ha a che fare con l’impronta educativa che gli studenti ricevono prima di approdare in quelli che, una volta, venivano presentati come i santuari del libero pensiero.

Sulla rivista New Atlantis Alan Jacobs scrive che “certe abitudini della mente sono connesse, in modo perverso, con il modo in cui vengono educati gli studenti di oggi. I giovani che non hanno avuto alcuna esperienza non strettamente controllata dai genitori potrebbero facilmente pensare che il ruolo principale degli adulti sia quello di proteggerli dai pericoli. Magari non capiscono i pericoli che vedono i genitori, ma il loro atteggiamento di fondo rimane influenzato dal loro”. In un sistema dove ogni oggetto, convinzione o idea non perfettamente sterilizzata rappresenta un rischio mortale da ridurre se non da eliminare, “Lolita” può essere alternativamente un capolavoro della letteratura o, come dice un anonimo professore di letteratura citato dal New Yorker, semplicemente “lo stupro sistematico di una ragazzina”, passibile di “trigger warning”.

Sull’argomento scrive anche Jen Doll sul Guardian

[..] any blanket trigger warning is bound to fail, because what it hopes to protect is only as known as the interpretation of the individual reader or viewer. And the freedom and creativity of those who create art is bound to suffer when their artwork becomes not simply judged – because everything is judged by others –but also relegated to categories of “triggering”.

How do we create anything at all when the way a reader feels – that ultimate unpredictable piece of any artistic puzzle – becomes the most important or validated part of artwork?

[…] In The Giver, the main character finds there is something more important than a society that’s free from pain. It’s a society in which we feel. That, of course, is the intention of art itself: it’s not meant to shield us from pain so much as offer a vessel through which we can cope, grow and even move past tragedy. If we warn people with a flashing red light that inside great works of literature they are likely to find pain, we do a disservice to the conversations, and the healing, meant to come through the act of reading itself.

Leggere – ma fruire qualunque forma di arte – è un processo di crescita che passa per il disturbo, per il dolore, per la sofferenza e per la meraviglia del cambiamento e della catarsi che chi ci si appresta sperimenta. Un libro sterilizzato è come una gatta senza le ovaie: non dà vita a nulla.

Brutta storia quando un pensiero (qualunque esso sia) diventa egemone e inizia a mettere in campo le stesse dinamiche che criticava nel pensiero avversario dalla posizione subalterna. I progressisti smettono di essere tali e si trasformano immediatamente in intransigenti conservatori. Fin dalla loro adolescenza, chiedendo la censura prima ancora che i censori intervengano.


Renzi in diretta: la grande menzogna

grecia-crisi-120110132543_bigFinalmente sono riuscito a decidermi. Dopo settimane di analisi e di riflessioni so cosa farò il 25 maggio. D’altra parte le elezioni europee hanno definitivamente assunto le sembianze di un referendum su questo governo. E’ inutile, infatti, prendersi in giro. L’Europa non cambierà corso nel breve tempo. Il cambiamento nel nostro continente avverrà “the hard way” (nel modo più duro e cruento). L’incapacità e la collusione della politica hanno fatto sì che il mutamento, se ci sarà, sarà sofferto. Lancinante. E si lascerà dietro una lunga scia di cadaveri. Non sarà guidato dai rappresentanti eletti dai popoli europei. Ma dalle spinte centrifughe della speculazione finanziaria. Non sarà piacevole. Di conseguenza pensare di votare questo o quello nell’illusione di perseguire un “progetto europeista” o “anti-tale” è un’illusione.

Dunque le prossime europee servono solo a rafforzare o a indebolire il governo in carica. Rendiamocene conto fin da ora perché è così che tutte le forze politiche leggeranno il risultato elettorale.

Dunque cosa farò il 25 maggio?

Parto da ieri sera. Per puro caso ho acceso la radio e ho ascoltato una lunga intervista a Renzi. Una delle trasmissioni di analisi politica del primo canale RAI. Al termine dell’intervista il conduttore apriva il confronto con gli ascoltatori. Ovviamente filtratissimi. La critica più severa all’operato del governo la sollevava un piccolo imprenditore veneto che si lamentava dell’eccessiva pressione fiscale. Ovvero l’incarnazione perfetta di due delle più efficaci creazioni mediatiche del nemico dei nemici: l’evasore (perché se sei un piccolo imprenditore sei per definizione un evasore) e il secessionista (il tipo aveva in effetti votato al referendum per la separazione del Veneto). Dico questo semplicemente per inquadrare il tipo di trasmissione in cui si inserisce l’intervista. Ovvero un contenitore senza spigoli e con le pareti belle imbottite cosicché l’ospite non abbia ad essere disturbato da attacchi troppo ortogonali o troppo informati. Contesto nel quale le affermazioni di Renzi diventano ancora più gravi. Nemmeno giustificabili dall’attenuante di un dibattito troppo serrato o incalzante.

E vengo ai deliri del presidente.

A un certo punto il conduttore gli chiede, presidente ha visto gli ultimi dati sulla crescita? Sembra che si sia tornati a valori negativi?

E lui inizia a recitare a memoria numeri che vanno da -08% a +1, qualcosa per cento. Ancorati a questa o a quella annualità. A questo o a quel trimestre. Blaterando una sequela confusa di idiozie sulla necessita di individuare bene il periodo considerato. Ma di cosa parla Presidente? -0,8? +1 e qualcosa? Negli ultimi 20 anni l’economia italiana ha subito cali da percentuali a 2 cifre e lei si considera soddisfatto da variazioni insignificanti come queste?

Ma il bello deve ancora venire.

Il conduttore lo incalza e gli chiede, presidente ma tutti questi che dicono che la colpa è dell’Europa? Che da quando c’è l’euro Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia … tutti insomma … hanno visto decrescere sia il PIL che il PIL pro capite? Che l’unico Paese a crescere in Europa è la Germania?

E lui … Questi gufi dovrebbero chiedersi perché la Germania cresce invece di chiedersi perché tutti gli altri sono in recessione. Che cosa ha fatto la Germania che tutti gli altri non hanno fatto? La Germania ha fatto le riforme strutturali. La riforma della burocrazia. La riforma del lavoro. E’ per questo che loro crescono e noi no. Ma con il mio governo siamo sulla buona strada. Come detto abbiamo presentato una riforma al mese. Senato. Lavoro. Burocrazia. E ora a maggio la riforma degli 80 euro.

Sarebbe bastato spegnere a quel punto per capire che ormai quelli che volevano la fantasia al governo si sono talmente corrosi da averci portato l’idiozia (o la sua sorella più furba, la rapacità). Ma ho continuato. E il resto non è stato altro che un continuo sottolineare i concetti di cui sopra. Giocando una dopo l’altra le solite carte becere del “che succederà ai mutui se crolla l’euro” e “che farebbero le aziende se la moneta unica non ci fosse più” e “l’inflazione sarebbe una tragedia se fossimo costretti a svalutare”. Tutto il repertorio scritto per il PD da Boeri e a cui nemmeno Boeri crede più. Il peggio del peggio insomma. La grande menzogna elevata al quadrato grazie al peso del relatore.

Ora, potrei mettermi a citare gli studi di 7 premi Nobel per l’economia per spiegare indirettamente a Renzi che la Germania non cresce perché ha fatto le riforme. Ma perché il cambio fisso stabilito con l’euro è stato utilizzato ad arte per rilanciare le esportazioni tedesche proprio a discapito di qeulli che dovrebbero essere i partner europei e ce invece sono sempre stati e continuano ad essere dei competitor sul mercato. Ma va beh, poi bisognerebbe spiegargli anche che il debito pubblico non c’entra niente e che il problema è la bilancia dei pagamenti. E che quando un sistema economico capitalista è sotto l’attacco di una crisi sistemica sono le politiche espansive a salvarlo dalla bancarotta, non le austerità ragionieristiche. Ma lo sappiamo … non c’arriverebbe.

Ora, potrei mettermi a cercare gli articoli dei quotidiani tedeschi che raccontano la riforma del lavoro avviata dagli omologhi schroderiani di Renzi e il massacro delle buste paga targato SPD. Che raccontano di come anche grazie alla svalutazione interna (leggi abbassamento dei salari dei lavoratori) i tedeschi crescano più degli altri. Potrei far notare al presidente come il suo jobs act in realtà non sia che la fotocopia venuta male di quella controriforma scellerata. E che lui la vorrebbe applicare non alla Germania che cresce ma all’Italia in recessione.

Ora, potrei far notare al presidente che la Cina iper burocratizzata è cresciuta per un decennio con una rete di mandarini inossidabili da sfamare che in confronto le collusioni fra i suoi colonnelli e i vassalli delle cooperative rosse fanno sorridere come una sitcom britannica. E che quindi la burocrazia sta alla crescita come il cacio cavallo sta alla cucina norvegese.

Potrei fare tutte queste belle cose, presidente, per spigare la sua grande menzogna. Ma sentirla definire i suoi 80 euro ai redditi sotto la soglia della decenza un riforma è stato veramente troppo. La sua riforma di maggio, l’ha chiamata! Per un attimo ho pensato che fosse il primo aprile e stessero facendo uno scherzo agli ascoltatori. Che lei fosse Crozza che provava a fare la sua imitazione. Che lei non stesse, di fatto, raccontando in diretta agli italiani che Achille Lauro (con la sua scarpa in cambio del voto) fosse stato il più grande riformatore italiano. Ma davvero pensa che l’Italia sia popolata da 60 milioni di deficienti?

La decenza ha decisamente una soglia invalicabile. Che dopo la grande menzogna sull’Europa ci si spinga fino alla presa per il culo esplicita e spudorata dell’elettore è veramente troppo. Che per l’ennesima volta gli si elemosinino 80 euro per poi raccontargli che l’unico modo per crescere è sottomettersi all’inevitabilità di quelle che lei chiama riforme. Delle sue riforme. Di quelle oscenità che renderanno sempre più ampio il bacino dei destinatari della sua scarpa da 80 euro. Mi perdoni, presidente, ma è veramente troppo.

Anche per uno come lei.

Tutto sommato devo ringraziarla presidente. Mi ha tolto d’impaccio. Fino a ieri sera avrei giurato che mi sarei astenuto. Tuttavia, sentendola chiara dalla sua voce, non mediata dal scegli e riporta dei giornali, dal taglia e incolla dei social media …. Ascoltandola chiara e limpida nelle sue parole, la grande menzogna (e la beffa che ad essa ha fatto seguito), finalmente ho deciso.

Il 25 maggio andrò a mettere la mia crocetta sulla scheda. Con tutti i dubbi e le perplessità. Con la piena consapevolezza dei limiti e delle distanze che su molti temi mi separano dal Movimento 5 Stelle andrò e li voterò. Contro di lei presidente e contro tutto ciò che il suo partito e le sue larghe intese rappresentano. Contro la sua incompetenza e la sua collusione.

Perché se proprio questo Paese deve toccare il fondo prima che le prossime generazioni possano avere le chance di quelle passate, che almeno su quel fondo possano calpestare la vostra ingordigia.

Complimenti presidente, parli più spesso in pubblico, perché ieri sera lei ha conquistato un altro voto … ai suoi avversari.


Squillo – Teaser

Domani su Narrabit il primo di due episodi

016_lei sul trenoFinalmente la città. Non ne posso più di questa giornata. Sorridere sui tacchi mi ha indolenzito i piedi e gli zigomi. Oggi, poi, ci mancava solo il regista. 4 frasi idiote ripetute almeno una ventina di volte – lo sguardo, più intenso lo voglio – blaterava l’isterico – Devi sprizzare passione. Chi ti guarda deve vibrare. Deve desiderarti – Nemmeno stessimo girando Ultimo tango a Parigi. E’ proprio vero che gli uomini sono come le metropoli. Più crescono, più tutto ciò che senti è rumore di fondo. Traffico di pensieri senza senso. Smog denso di parole sature del loro ego.

Oltre il finestrino c’è la periferia nord. Luci distanti punteggiano l’oscurità. Quartieri decadenti. Minicar a zonzo. Un grande serbatoio sferico riconquistato dal tempo. Bianco ma verde di vegetazione. Un distributore ENI. Meno 30 centesimi se la fai al self-service. Più un euro per il bengalese che aspira dal filtro sporco di grasso. Buio di nuovo. E’ bella Roma al buio. Come un uomo con il corpo scolpito. Lo guardi con i polpastrelli e dimentichi quel viso che non riesce a piacerti.


Un Grillo non fa primavera

Quella dell’Europa di primavera. Quella della crescita …. che non ci sarà. Quella del benessere …. che non tornerà. Quella di un’opposizione che sui temi fondamentali dell’economia ….. sta indietro anni luce.

Il Movimento 5 Stelle continua imperterrito la sua marcia sul sentiero sbagliato. Assecondando e concentrando la rabbia dell’elettore (nemmeno so se medio, saranno i numeri a dirlo) contro la corruzione, l’inciucio, il malgoverno. Tutti temi sacrosanti ma che NULLA hanno a che fare con la situazione economico-finanziaria del Paese. Negli anni ’80 l’evasione e la corruzione erano ben più pervasive, eppure i nostri genitori stavano meglio di noi. Con uno stipendio viveva anche una famiglia. Ora con 2, di stipendi, è già tanto se arrivi alla fine del mese.

I “pugni sul tavolo” dello slogan per le europee non sono né originali (li hanno usati tutti i politici italiani dal Berlusconi antiteutonico in qua) né funzionali. Sono uno slogan vuoto e privo di senso. Che al massimo procurerà ai cittadini eletti un bel mal di mani. Come dice Sapir l’Europa non si cambia, si smantella.

Per le elezioni di fine maggio sono veramente in difficoltà. Dal punto di vista delle politiche macro-economiche (ovvero l’asse centrale attorno a cui ruota il nostro futuro e sulle quali si gioca il confronto elettorale) la posizione del M5S è identica (nella sostanza) a quella dei partiti delle larghe intese (PD, FI, NCD e satelliti vari).

Se dovessi guardare alle europee per ciò che sono (elezioni europee) dovrei andarmene in montagna quel giorno.

Se le dovessi guardarle per ciò che necessariamente verranno considerate (un test di tenuta dell’attuale governo, quindi di fatto elezioni politiche italiane), dovrei andare e votare l’unico partito di opposizione in grado di avere i numeri per deragliare la devastante alleanza centro-destra centro-sinistra che insanguina questo paese dai primi anni ’90.

Chissà ….

intanto di seguito una bella collezione di idiozie economiche e auto-smentite di Grillo e Casaleggio nel corso dei mesi.

Fonte: il forum economia di Cobraf.com

Euro

Casaleggio, video del maggio 2013: “se usciamo dall’euro dopo un po’ la lira vale zero, ammesso che torniamo alla lira”, per Casaleggio la priorità non è la svalutazione competitiva perché “prima bisogna risolvere il problema della corruzione, dell’efficienza, della burocrazia”. “vi ricordo alla fine degli anni ’80-’90 che non riuscivamo ad andare neanche all’estero, la lira non valeva niente, le vacanze all’estero erano una cosa impossibile,bisogna far sì che il sistema paese diventi competitivo, poi eventualmente si può pensare alla svalutazione competitiva ”..
Strano… nel 1988 io sono andato a studiare in America…chissà con che cosa avrò comprato i dollari necessari…lire no, dice Casaleggio perchè all’epoca nessuno le accettava e lui è un noto manager come dice Grillo, allora con cosa avrò pagato.. forse pepite ?

Casaleggio è sulla stessa posizione del PD

(Grillo)  … si potrà svalutare la cara vecchia lira del 40-50% , e anche se ciò non risolverà tutti i problemi economici del Paese, renderà le nostre esportazioni più competitive”
“Noi consideriamo di fare un anno di informazione e poi di indire un referendum per dire sì o no all’Euro e sì o no all’Europa” . I trattati internazionali non possono essere soggetto di referendum, secondo l’Articolo 75 della Costituzione.
1 dicembre 2011:  Ci sono due posizioni opposte sull’euro, entrambe con pari dignità . Occorre referendum in proposito”.
20 aprile 2012: “Bisogna iniziare a discutere di uscita dall’euro, non deve essere un tabù”
Primavera 2012: Intervista Sortino a Grillo: “Io sono per valutare una seria proposta di rimanere in Europa ma uscire dall’euro, con il minor danno possibile”. Con altri giornalisti “90 su 100 ci riprendiamo la lira”.
28 giugno 2012: “Io non sono contrario all’euro in principio. Ho detto che bisogna valutare i pro e i contro e se è ancora fattibile mantenerlo. Ma, se usciremo dall’euro, sarà solo a causa del nostro enorme debito pubblico.”
22 febbraio 2013, Piazza S. Giovanni : “Io non ho mai detto di uscire dall’Europa, io non ho mai detto di togliersi dall’euro . Voglio una consultazione popolare”

Slot machines
(Grillo) “Le aziende delle slot machines hanno evaso 98 miliardi” Si tratta in realtà della cifra delle multe stimate e calcolate per i due anni che le slot machines sono state scollegate dalla rete nazionale dei Monopoli di Stato. Infatti la Corte dei conti stabilì che l’importo reale da pagare era 2,5 miliardi. Va ricordato che l’importo massimo dei ricavi del gioco delle slotmachines è stato di 80 miliardi l’anno (2012), per cui l’utile su cui pagare le tasse (che sarebbero state evase in parte per i due anni) è ovviamente una frazione di questa cifra (in altre parole chi parla di 98 miliardi confondeva il fatturato con l’utile, se fosse vero che in due anni hanno evaso 98 miliardi i loro utili pre-tasse sarebbero stato sui 250 miliardi in due anni !!! Gtech varrebbe come Apple…)

Beppe Grillo alla tv pubblica tedesca Ard: ”Dobbiamo realizzare un piano comparabile con l’Agenda 2010 tedesca”, ovvero quella dall’ex cancelliere Gerhard Schroeder, e che gli ha fatto perdere le elezioni successive. ”Quel che ha dato buoni risultati in Germania, lo vogliamo anche noi”, dice lui.

Debito Pubblico
(Grillo) “L’85% del debito non è in mano nostra […] è in mano alle banche! Di cui la metà straniere: francesi, inglesi, tedesche.” In realtà il debito attribuito a soggetti definibili raggiunge solo il 27,3%, un dato assai lontano dall’85% menzionato. A questo dato va sommata la quota detenuta dalla Banca d’Italia (4%), di conseguenza il debito in mano agli istituti bancari raggiunge il 31,3% mentre la restante somma appartiene a soggetti privati.
“Non siamo falliti perchè metà del nostro debito era in mano alle banche francesi e alle banche tedesche. Se fallivamo noi ci portavamo dietro la Francia e la Germania quindi tutta l’Europa.” Nel 2010 la Francia aveva in pancia il 20.93% del debito pubblico italiano, mentre la Germania solo il 7.78%, per un totale complessivo di 28.71%. Il debito complessivo nel 2010 era pari a 1.841.912 milioni di euro.
“Metà del nostro debito è in mano a banche straniere – 511 miliardi ce l’hanno i francesi, 200 miliardi i tedeschi” (2012). Il dato fornito da Grillo viene smentito dal Bollettino Statistico di Bankitalia. A maggio 2012 il debito in mano a tutti i non residenti ammontava a 690 miliardi, pertanto solo le banche tedesche e francesi non potevano avere in pancia 711 miliardi di debito (ne avevano meno della metà).

Lira
Nel post intitolato “Il Diavolo veste Merkel” “Solo così l’Italia tornerà a vedere la luce. Una prova? Usciti dallo SME nel 1992, svalutata la lira di quasi il 20% e riguadagnata la sovranità monetaria, il rapporto debito / PIL scese dal 120% del 1992 al 103% del 2003” . La rapida discesa del nostro indebitamento non è coincisa con la svalutazione della lira, bensì proprio con l’ingresso dell’Italia nell’unione monetaria, formalmente avvenuta nel 1993 – Trattato di Maastricht – e poi sostanzialmente il primo gennaio del 1999, dopo che il nostro governo riuscì a rispettare i parametri previsti dal Patto di Stabilità e Crescita del 1997 adottato al Consiglio europeo di Amsterdam. Fino al 2006/2007 il costo del debito è sceso grazie all’euro, tanto che nessuno all’epoca sapeva cosa fosse lo spread, tanto era minima la distanza tra paesi forti, la Germania, e le nazioni economicamente più deboli, come la Grecia.

Opere Pubbliche
Grillo ha detto in un comizio del 20 febbraio 2013 che “un terzo del pil lo spendiamo per opere che crollano e un altro terzo per aggiustarle” . Quindi il 66% del pil sarebbe speso in opere pubbliche. Chi, come, dove e quando? Qual è la fonte? Non esiste. Basta leggere il bilancio dello Stato per verificare che tale misura non raggiungeva l’11% due anni fa e il 9% attualmente.

Province
Nel suo post “L’oracolo della Consulta e le province eterne” scrive che “i risparmi derivanti dall’abolizione delle province sarebbero di ben 17 miliardi di euro”. Il costo delle province si aggira intorno a quella cifra (erano 14 miliardi nel 2005). Di quei 14 miliardi del 2005 poco più della metà andava in istruzione pubblica (18%), trasporti (9%) e gestione del territorio (24%)! Il risparmio potrebbe essere (stima ottimistica) di 2 miliardi e non 17.

UE
“un terzo del bilancio europeo è speso per traduzioni”. Il bilancio del 2012, a essere precisi, è di 147 miliardi, e le traduzioni sono costate 330 milioni… ” l’Italia fornisce un terzo del bilancio dell’Unione Europea”. A essere precisi è il terzo paese per contributi, che è diverso, perché significa che versa 14 miliardi su circa 140, cioè un decimo. “i soldi del bilancio vanno in ipermercati e strade e petrolio…” La metà dei fondi europei, a essere precisi, vanno in sovvenzioni per l’agricoltura. Poi Grillo ha citato alcuni grattacieli in bambù che Renzo Piano avrebbe progettato in Australia: a essere precisi in Australia non esistono grattacieli in bambù progettati da Renzo Piano, a Melbourne semmai esiste un palazzo di legno (non in bambù e progettato da altri) che comunque è costosissimo. Poi ha detto che la Francia ha un bilancio di 17 miliardi di euro inferiore al nostro. A essere precisi è di 300 miliardi superiore.


Le elezioni europee seconodo Sapir

Tutti i partiti in lizza – non solo in Italia – sostengono di voler cambiare l’Europa. Dateci i voti e noi cambieremo la direzione dell’Unione. Ma è veramente possibile? Ovviamente no. Le vie del marketing elettorale sono infinite. l’unico modo di cambiare l’Unione Europea è quello di smantellarla. Non lo dice il leader mascherato di un sedicente movimento di liberazione continentale che imbraccia gli AK 47 e nasconde i volti dietro i cappucci, ma l’economista francese Jacques Sapir.

In Italia che fare? I partiti di governo e di opposizione sono tutti pro-euro e pro-unione. La lista Tsipras è una mano di vernice data allo scafo bucato per venderlo prima ce affondi. Fa eccezione solo la Lega.

Buona lettura.

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articolo originale: russeurope.hypotheses.org/2179

fonte: vocidallestero.blogspot.it/2014/04/sapir-le-elezioni-europee.html

Dopo la formazione del nuovo governo francese siamo stati subito e pienamente coinvolti nella campagna per le elezioni europee. Queste suscitano in genere uno scarso interesse. E’ un errore, e sarebbe particolarmente dannoso se accadesse anche questa volta. La posta in gioco delle prossime elezioni è alta. Esse esprimeranno delle scelte elettorali che saranno, senza dubbio, difficili e delicate. Dobbiamo qui ricordare che tali elezioni riguardano in realtà l’Unione Europea e non l’Europa stessa. Uno può sentirsi culturalmente e storicamente europeo e rifiutare quell’istituzione che si è appropriata del nome di Europa, ma che è ben lontana dall’essere adeguata a tale scopo.

L’Unione Europea alla deriva

Oggi anche i più ferventi difensori dell’Unione Europea ammettono che essa è alla deriva e che, sempre di più, serve unicamente da copertura agli interessi della Germania [1]. Il perseguimento delle politiche di austerità, esplicitamente implementate per “salvare l’euro” senza imporre un costo troppo alto alla Germania, lo dimostra. Queste politiche stanno attualmente conducendo i paesi dell’Europa del sud verso la bancarotta e la miseria. Ma, parlando in generale, l’UE soffre anche di molteplici difetti, che nel tempo sono diventati sempre più evidenti. È politicamente elefantiaca, troppo aperta e senza altra linea di politica industriale se non la famosa “concorrenza libera e senza distorsioni”, che qualsiasi economista minimamente onesto deve riconoscere essere una contraddizione in termini. Essa non garantisce né la sicurezza economica ai popoli degli stati membri, e nemmeno la sicurezza politica – essendo stata catturata da interessi che ora premono per un’opposizione frontale nei confronti della Russia, come si è potuto constatare in occasione della crisi in Ucraina. In questa occasione i leader della UE, che si vantano di rispettare i diritti umani, non hanno esitato a dare il loro sostegno a dei gruppi fascistoidi come il “Pravy Sektory” o SVOBODA. Ricordiamo pure che questa stessa UE si è dimostrata totalmente incapace di evitarci la crisi finanziaria del 2007-2008, a dispetto di tutti i discorsi sul fatto che “l’Europa ci protegge”. Questa linea politica proseguirà con la firma del “Trattato Transatlantico” (il TTIP, ndt), che stabilisce le condizioni di un libero scambio generalizzato con gli Stati Uniti e che, di fatto, impone che le nostre norme sociali e sanitarie debbano essere allineate con quelle degli Stati Uniti. Di fronte a una tale nuova abdicazione a Washington, non si riesce più a vedere, dunque, quale sia la giustificazione per mantenere una “Unione Europea”.

Oltretutto possiamo qualificare l’Unione Europea come un’organizzazione criminale, a causa delle politiche che vengono tuttora implementate dalla cosiddetta “Troika” in Grecia e in altri paesi. Sicuramente, in questo la UE non sta agendo da sola. La “Troika” è costituita dalla BCE, dalla Commissione Europea e dal FMI. Ma bisogna anche riconoscere che il FMI si è ripetutamente opposto alle politiche che venivano implementate dalla “Troika”, poichè ne prevedeva e calcolava le conseguenze. La responsabilità della smisurata durezza di queste politiche, che si sono tradotte in un netto incremento della mortalità in Grecia, e da qualche mese a questa parte anche in Portogallo – ed è per questo che usiamo l’aggettivo criminale – è solo ed esclusivamente da attribuire alla Commissione Europea e alla BCE. L’UE ha anche la responsabilità di aver fatto entrare un movimento neo-nazista come Alba Dorata nel Parlamento Greco. E’ anche questo che dovrà essere sanzionato in queste elezioni.

L’insensatezza del discorso “cambiamo l’Europa”

In un tale contesto, evidentemente, nessuno ha intenzione di difendere la UE “così com’è”, e i discorsi sulla necessità di “cambiare l’Europa” si vanno moltiplicando. Ma quanto possono essere reali?

L’Unione Europea comprende troppi membri per  poter portare avanti dei progetti interessanti. È un fatto che un’alleanza è sempre più lenta e più debole rispetto ad un singolo paese. Inoltre, la natura liberista dell’Unione Europea non è solo inscritta nel progetto europeo fin dal principio, ma corrisponde precisamente alla logica con cui si svolgono i negoziati. Quando si cerca un compromesso, risulta sempre molto più facile convergere su una posizione di non-intervento, sia che si tratti di materie economiche che sociali. Qualsiasi atto concreto genera un’infinità di mercanteggiamenti che, a loro volta, generano nuovi contenziosi. Oltre al peso dell’ideologia liberista, al peso degli interessi particolari delle grandi imprese che sono ben rappresentate a Bruxelles, si deve sapere che nella logica di un negoziato il “punto focale” [2] si trova molto spesso nella misura più “liberista”.

L’Unione Europea non è un’istituzione che sta fuori da un contesto. Si muove in un universo nel quale, sia per interessi particolari sia per ideologia, i funzionari che la compongono, e che in larga misuradecidono l’ordine del giorno delle riunioni, sono completamente intrisi dell’ideologia più liberista. Non dobbiamo dimenticare che queste persone vivono con ottimi stipendi (che non hanno mai pensato di ridursi per solidarietà con i popoli da loro oppressi). Pretendere di cambiare l’Unione Europea equivale a pretendere di stabilire un altro contesto, e implica la volontà coordinata di una maggioranza di paesi. È piuttosto evidente che, a causa dell’asincronia dei cicli della politica nei principali paesi, questo è al momento assolutamente impossibile.

A questo punto si potrebbe obiettare che questa è una conseguenza della natura inter-governativa della UE, e che per questa ragione bisogna andare nella direzione di un’Europa federale. Ma questo ragionamento poggia su false basi. Anzitutto, non esiste un popolo europeo, sia questo dovuto a rappresentazioni politiche troppo divergenti o al peso di storie diverse che sono troppo profondamente radicate. Solamente la soluzione inter-governativa è possibile se si vuole preservare un minimo di democrazia. Inoltre la soluzione federale esigerebbe ad oggi dei massicci trasferimenti fiscali dai redditi dei più ricchi (dei tedeschi per essere chiari [3]), al fine di alimentare questo “bilancio federale” che taluni vagheggiano. La federalizzazione dell’Europa è un non-senso, tanto politico quanto economico.

Infine diamo un’occhiata a chi sta oggi chiedendo di “cambiare l’Europa”.  Questo discorso viene fatto tanto dall’UMP quanto dai Socialisti. Tuttavia, da più di vent’anni nessuno di questi due partiti ha mostrato la benché minima volontà in tal senso. Il solo modo di “cambiare l’Europa” per davvero sarebbe quello di provocare una grave crisi, bloccando il processo decisionale, cosa che la Francia potrebbe fare da sola o assieme ad altri paesi, fino ad ottenere ciò che vogliamo, almeno in parte. Questo è ciò che il Generale De Gaulle fece negli anni ’60 con la sua politica della “sedia vuota”. Tuttavia, né l’UMP né i Socialisti si fanno oggi sostenitori di questa linea, il che pone un dubbio fondamentale sulla loro effettiva volontà di “cambiare l’Europa”. Lo stesso si può dire del partito centrista UDI, dei socialisti dissidenti del “Nouvelle Donne” o del partito ecologista EELV. Aggiungiamo che questi partiti sono debolmente strutturati e sono preda di ambizioni personali e di conflitti tra le varie personalità. Bisognerebbe essere matti per credere che da questi possa venire fuori una qualche possibilità di cambiamento.

In realtà, il discorso sul “cambiare l’Europa” si rivela essere, che sia di proposito o come conseguenza dei mezzi che vengono proposti, un discorso mistificatore. Non si cambia nulla, ma si finge di voler cambiare per legittimare delle posizioni che nei fatti non cambieranno nulla. Non è nemmeno come nel Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, “cambiare tutto perché nulla cambi”. In realtà non dobbiamo “cambiare l’Europa”, ma cambiare di Europa. E per questo, si deve cominciare col distruggere ciò che ora rende impossibile alla UE qualsiasi movimento.

Due punti critici

In queste circostanze si sente fortemente la propensione ad astenersi a queste elezioni. Tale è la posizione di alcuni, tra cui Jacques Nikonoff e il M’PEP. È una posizione onorevole, ma erronea. In un’elezione, a meno che non si riesca materialmente ad impedirla, o che il tasso di astensione superi il 90%, gli assenti hanno sempre torto. Quindi occorre definire cosa motiva il voto e quali sono le liste che potrebbero essere votate, sapendo a priori che tra queste non ci sono nè l’UMP, ne l’UDI, nè i socialisti nè EELV. Queste elezioni si giocheranno in realtà su due punti.

Il primo punto è il famoso “Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti” (TTIP). Questo trattato è abominevole per diversi aspetti, sia perché toglie agli Stati le competenze fondamentali su temi quali la sovranità alimentare o la tracciabilità dei medicinali (il che tocca i due punti chiave dell’alimentazione e della salute), sia perché costituisce un malcelato abbandono di tutte le normative francesi ed europee. Questo trattato, come ha confermato Michel Sapin in una dichiarazione il 2 aprile di quest’anno, non verrà sottoposto a referendum. Perciò deve essere stroncato sul nascere, e questo si può fare solamente attraverso le elezioni europee.

Il secondo punto sono, ovviamente, l’euro e le politiche di euro-austerità che esso porta con sè. Per molti mesi abbiamo analizzato tutti i problemi, sia di breve termine che strutturali, causati dall’euro [4]. Dal 2012 sono stati molti gli economisti, ma anche i politici, che si sono detti d’accordo con queste conclusioni [5]. Ora il dibattito si è  generalizzato, e si estende dall’Italia al Portogallo, passando per la Germania [6]. Dev’essere detto e ripetuto: l’unico modo di uscire dal circolo vizioso dell’austerità e del debito è smantellare l’euro.Sulla base di questo argomento lo scorso febbraio il Partito di Sinistra ha significativamente spostato le proprie posizioni verso l’idea di un’uscita dall’euro.

Pertanto, e tenuto conto della natura delle procedure di voto, converrà sostenere e votare, in accordo con le proprie personali preferenze politiche, tutte le liste che si pronunceranno senza ambiguità contro questi due punti. Solo una chiara e netta sconfitta delle liste europeiste (UMP, UDI, Socialisti, “Nouvelle Donne” e EELV) può permettere il chiarimento politico di cui abbiamo bisogno, sia in Francia che in Europa. Dobbiamo rifiutarci di mandare al Parlamento Europeo persone che non faranno altro che prolungare delle politiche che sono già durate troppo a lungo.


Se andate in falesia, lasciate a casa il secchiello

E ogni altro freno non assistito.

Fra gli arrampicatori c’è una grande diatriba su quale sia il migliore freno da usare in ogni situazione. Quello non assistito così il volo è più morbido e l’assicuratore è costretto a stare attento? O quello assistito così anche un assicuratore incauto non provoca la caduta a terra del compagno?

La discussione è infinita. Ognuno ha la sua idea. E alla fine la maggior parte di noi conclude il dibattito con la solita frase. Nessun freno è garanzia di niente. Nessun freno è a prova di stupido. Non è il freno a rendere sicura una cordata ma l’assicuratore.

Già l’assicuratore.

Questa visione è fondamentalmente esatta. Niente può rimpiazzare l’attenzione e la perizia di chi fa sicura. Eppure è una visione viziata da una concetto monodimensionale della catena di assicurazione. Quello che si rivolge verso l’alto. Ovvero quello che pensa quasi esclusivamente al primo di cordata. Al fatto che il suo eventuale volo sia sicuro, controllato e che non metta a rischio la sicurezza team in parete. Questa visione funziona nella maggior parte dei casi. Ma esiste una categoria di rischio che essa non copre. Ovvero quella che si rivolge verso il basso. Quella che vede nella sicurezza dell’assicuratore, e non del primo di cordata, l’elemento di salvaguardia dell’intera catena di assicurazione.

Purtroppo parlo per esperienza. E ve la racconto. Poi provo a fare una considerazione finale.

Il distaccoPlacca. Via sul 6b. Cengia comoda su cui fare sicura. Via fatta almeno 10 volte. Passaggi che ricordo a memoria. Il compagno è molto attento. Uno di quelli con cui ci si controlla perfino il nodo e l’allacciatura dell’imbrago. Vado. Moschettono il primo spit e salgo in piedi su una lama. Di solito proseguirei e moschettonerei il secondo più in alto, oggi non so perché lo faccio dal basso. Quando è ancora sopra alla mia testa. Due palmi a sinistra dello spit c’è la solita orecchietta su cui mi appoggio di spalla per alzare il piede destro su un appoggio e poi ristabilirmi spaccando. Alzo la mano. Infilo i polpastrelli dietro all’orecchietta mi appoggio e ….

… crolla tutto! Si stacca un televisore da 40 pollici spesso due palmi e scivola verso il basso. Penso, cazzo! Penso, la corda! Penso, Giacomo! Ma già è successo tutto. Mi volto e lui urla. E’ sotto shock, si afferra la gamba destra e il dolore gli strappa frasi sconnesse. Sono ancora appeso. E lui non capisce più cosa succede. Non riesco a scendere. Intervengono le cordate vicine ….

Un paio di ore dopo siamo al pronto soccorso di Terracina. Per fortuna usciamo con due punti su un ginocchio e nessun danno evidente. Se ne abbiamo riportati altri sarà solo il tempo a dircelo.

Mentre siamo in sala d’aspetto ricostruiamo i secondi in cui la Dea Bendata ha deciso che non era il nostro giorno.

Mi apoggio all’orecchietta. Il pezzo di placca si stacca. Volo. Precipitiamo giù insieme. Il masso colpisce la lama e l’impatto si dissipa in gran parte lì. La corda mi tiene e solleva Giacomo da terra quel tanto che basta per scaricargli il peso corporeo dalla gambe. Proprio in quell’istante il masso lo colpisce sulla parte alta della coscia e “scivola” fino al ginocchio, spostandolo in aria come fosse di cartapesta.

La fortuna ci ha slavato. Solo la fortuna. In quelle frazioni di secondo non c’è procedura, esperienza, sicurezza, comportamento corretto che tenga. Se hai culo sei salvo se no sei spacciato. Bastavano mezzo secondi di ritardo e una traiettoria di 20 cm più destra e il masso tagliava la corda di netto e prendeva Giacomo mentre era ancora a terra. Il risultato era che io ero morto e lui come minimo sulla sedia a rotelle.

il massoLa fortuna non la puoi influenzare. La fortuna non la puoi né cercare né guidare.

Ma una cosa corretta l’abbiamo fatta. Abbiamo usato un freno assistito. Perché l’istinto di sopravvivenza, per quanto seppellito sotto gli strati della civiltà di cemento è lì, pronto a riemergere. E quando un masso ti viene incontro e ti colpisce e il dolore ti invade il cervello, le mani le stacchi dalla corda e le porti istintivamente sulla parte dolente. Perché se inciampi e cadi a faccia avanti le mani le porti davanti al corpo per salvarti il naso. Perché … Perché … Perché … Sono tanti i motivi per cui quelle prime frazioni di secondo, a prescindere dalla tua esperienza, dal tuo altruismo, dal tuo affetto per chi ti arrampica sopra le dedichi a te stesso. Non è un atto volontario o egoista. E’ il mammifero che salva sé stesso. E’ l’istinto. E quando l’uomo civilizzato riprende il sopravvento e pensa al compagno che cade … ormai è troppo tardi.

Quindi?

Quindi quando la catena di assicurazione non richiede l’uso di un freno non assistito, lasciatelo a casa. In falesia gli spit stanno piantati nella parete e un’eventuale sicura statica non li stacca. E se l’assicuratore, per qualunque motivo, perde le mani sulla corda, il primo non si schianta. Ciò non significa che il freno assistito debba diventare un alibi per fare sicura in maniera distratta, tanto quanto avere a casa una televisione non obbliga a guardarla. Ciò non significa che non si debba imparare a fare una sicura variabile (in funzione della morfologia della parete) e dinamica (laddove serva). Per questa basta accompagnare con il corpo il volo, o al massimo tenere la frizione aperta e usare il dispositivo come fosse un freno non assistito.

In sostanza … quando andate in falesia lasciate i freni non assistiti a casa. Non sono necessari. E se tutto va male possono essere letali. E vi assicuro. Quando va male, non ve ne accorgete prima. Ma solo dopo.


Come fosse tua – teaser del prossimo racconto su Narrabit

010_a pescaDue anziani su una vecchia motocicletta cromata ci passarono accanto. La donna si girò verso di noi e aggrottò la fronte, chiedendosi probabilmente cosa ci facessero due forestieri in quel posto dimenticato da Dio, da cui tutti stavano fuggendo. Sotto il casco sverniciato indossava un cappello da baseball scolorito dall’usura. L’uomo le toccò una gamba per avvisarla e lei si strinse alla sua vita. Il semaforo divenne verde e ripartirono. Li seguimmo alla ricerca di una zona ancora abitata dove distribuire provviste e medicine. Serpeggiammo per un quarto d’ora fra strade di erba e fango. Nella piazza centrale due bambini con i calzoni arrotolati alle ginocchia attraversavano a piedi nudi il selciato allagato. In mano avevano una vecchia canna da pesca e una busta di plastica spessa che si agitava al ritmo agonizzante delle loro prede.

Lunedì 24 marzo il primo di 2 episodi su http://narrabit.wordpress.com/


Economia? No grazie non ci capisco niente

Molti di noi se la cavano così. Dismettendo il problema e delegandolo a chi ne sa di più. Fino al punto di prendere per oro colato qualunque idiozia un TG propini come realtà. Vorrei rassicurarvi. Dopo aver visto quanto poco capisce di economia il sottosegretario Del Rio … sottosegretario all’Economia (sic) … direi che c’è speranza per tutti. Basta leggere, approfondire, informarsi cercando fonti accreditate.

Ve ne propongo 2. Un video di Claudio Borghi a Piazza Piddina (ooopsss … Pulita). Che aveva di fronte proprio l’inconsistente vice di Padoan.

E un pezzo del caro vecchio Bagnai veramente a prova di principiante. Comprensibile, chiaro, cristallino.

In sostanza perché l’euro sta uccidendo l’Europa

La crisi fa emergere il problema originario dell’euro, da sempre ignorato dai politici: una moneta unica nello spazio economico europeo è insostenibile

La levata di scudi dei politici europei contro i “mercati” è prova di ingenuità o di ipocrisia. La crisi dell’euro non dipende tanto dai “mercati”, quanto dal fatto che adottando l’euro la classe politica ha deliberatamente ignorato l’avviso della maggior parte degli economisti, i quali da tempo avvertono che una moneta unica europea non sarebbe sostenibile. Questa scelta politica ha ragioni ideologiche che è necessario individuare per valutare le possibili vie di uscita dalla crisi. Cosa comporta la rinuncia alle monete (e quindi ai tassi di cambio) nazionali? A chi conviene? E perché? Per chiarirlo ripercorriamo gli snodi della crisi greca.

Debito pubblico e debito estero

Il problema della Grecia deriva non tanto dal fatto di avere un grande debito pubblico, quanto dal fatto che il suo debito è detenuto da non residenti, cioè è debito estero. A riprova che col debito pubblico si può convivere citiamo il Giappone, che ha, lui sì, un enorme debito pubblico, pari al 217% del proprio Pil, cioè al 17% del Pil mondiale (quello greco è appena lo 0.7%). Perché questo debito non preoccupa i mercati? In effetti, in Giappone il settore privato risparmia tanto da prestare all’estero circa 2000 miliardi di dollari, oltre a quanto presta al proprio governo. Il Giappone è il più grande creditore estero mondiale: in caso di problemi potrebbe sempre finanziare la propria economia facendosi restituire i soldi prestati all’estero. Questo la Grecia non può farlo, perché è pesantemente indebitata con l’estero, per più del 100% del proprio Pil. Prestereste più volentieri 10 000 euro a un amico che ha dieci appartamenti, o 100 a un amico disoccupato?

Debito estero e spesa nazionale

I paesi si indebitano se le spese superano le entrate. Consideriamo il problema in termini di commercio estero: se un paese importa (cioè acquista) più beni di quanti ne esporta (vende), dovrà farsi prestare dall’estero il necessario per coprire la differenza fra spese e incassi. Quindi la contropartita di un deficit della bilancia dei pagamenti è un aumento del debito estero. Prima delle rispettive crisi Stati Uniti, Islanda, Grecia (e Argentina, Tailandia,…) avevano un rilevante deficit estero, spesso in presenza di deficit e debito pubblico nella norma (si veda l’articolo “Anche l’Europa ha i suoi stati subprime“). Insomma, queste crisi sono tutte inquadrabili in definitiva come crisi di bilancia dei pagamenti. Qui entra in gioco il tasso di cambio.

Debito estero e tasso di cambio

In teoria per ridurre l’indebitamento estero un paese ha due strade: contenere la spesa o svalutare. Ma i paesi appartenenti a una unione monetaria non possono svalutare: possono solo attuare politiche restrittive.

Queste migliorano i conti con l’estero riducendo le importazioni: se la gente ha meno soldi da spendere, spende meno anche in beni esteri. La disoccupazione aumenta, perché se la spesa nazionale cala, alcune imprese devono chiudere. L’aumento dei disoccupati contiene i salari, e col tempo le merci nazionali diventano più convenienti e le esportazioni aumentano: alla domanda nazionale si sostituisce domanda estera, e le cose tornano a posto. Questo è il percorso, non breve, che si prefigura per la Grecia.

Anche la svalutazione sostituisce domanda estera a quella nazionale, ma in modo più rapido e meno devastante: svalutando il paese rende immediatamente più costose le merci estere (e ne acquista di meno) e immediatamente più convenienti le proprie (e ne vende di più), “isolando” il mercato del lavoro dallo shock. Questo è quello che ha fatto l’Islanda, che dopo la crisi ha svalutato del 133%.

Certo, il gioco non può durare all’infinito. Chi svaluta paga di più le merci importate e quindi importa inflazione, minando la propria competitività. Ma perché usare un solo strumento? Si potrebbe svalutare nel breve periodo e mettere i conti in ordine nel medio. Dal novembre 2008 l’Islanda ha stabilizzato il cambio impegnandosi in un percorso di risanamento: non ci sono stati morti per le strade. C’è stata sì l’eruzione di un vulcano, ma nessuno pensa che dipenda dalla svalutazione (fatto salvo forse qualche funzionario della Bce).

Dove sta scritto che un governo deve avere solo uno strumento a disposizione?

Maastricht e le zone monetarie ottimali

Sta scritto nel trattato di Maastricht. Con la moneta unica i paesi dell’eurozona si sono privati di uno dei due strumenti disponibili per riequilibrare i conti con l’estero, quello più rapido (e quindi più adatto per la gestione delle emergenze): la svalutazione.

Potevano permetterselo? Al di là dell’evidenza dei fatti, diamo per una volta agli economisti il merito che spetta loro: il primo a dichiarare che non potevano permetterselo è stato James Meade nel 1958 (sì, cinquantadue anni fa), e i motivi sono stati chiariti nel 1961 da Robert Mundell, che per questo ha preso nel 1999 il premio Nobel.

Le condizioni che rendono sostenibile l’adozione di una moneta unica sono quattro: [1] flessibilità di prezzi e salari, [2] mobilità dei fattori di produzione, [3] integrazione delle politiche fiscali e [4] convergenza dei tassi di inflazione. Il loro ruolo è chiaro alla luce del fatto che, come abbiamo chiarito, ai paesi che non possono svalutare rimane solo la strada “lacrime e sangue”. Quest’ultima è meno dolorosa se prezzi e salari reagiscono rapidamente ai “tagli” (la flessibilità al ribasso dei salari ripristina più in fretta la competitività del paese), e se i disoccupati possono trovare lavoro nei paesi membri più fortunati (la mobilità riduce i costi sociali dei tagli). L’integrazione delle politiche fiscali a livello sopranazionale permette interventi di sostegno delle zone in difficoltà. La convergenza dell’inflazione, poi, è cruciale per la sostenibilità della moneta unica: se in un paese i prezzi crescono più in fretta della media, nel lungo andare le sue esportazioni diminuiranno e il paese accumulerà debito estero.

Mezzo secolo di studi mostra che nei paesi dell’eurozona queste quattro condizioni non sussistono: la flessibilità dei prezzi e dei salari e la mobilità del lavoro sono insufficienti, l’integrazione delle politiche fiscali è di là da venire, e circa la convergenza dell’inflazione, ricordiamo che dal 1999 in media tutti i paesi dall’area euro hanno avuto inflazione più alta della Germania (perdendo competitività rispetto ad essa). Il paese che ha retto meglio il confronto è stato la Finlandia (con solo 0.1 punti di inflazione in più). I peggiori sono stati Irlanda (1.7 punti in più), Grecia (1.6), Spagna (1.5) e Portogallo (1.2), il che spiega appunto quanto sta accadendo (perdita di competitività, deficit di bilancia dei pagamenti, accumulazione di debito estero, crisi).

Economia e ideologia: le “riforme strutturali”

Il trattato di Maastricht ignora le condizioni dettate dalla teoria economica (flessibilità, mobilità, integrazione, convergenza dell’inflazione) e insiste sul debito pubblico (irrilevante per la teoria), con l’intento di propugnare la riduzione del peso dello Stato nell’economia, e di evitare riferimenti alla reale natura del problema. Quale sia lo suggerisce Mario Nuti in un intervento nel suo blog, dove dichiara la sua insofferenza verso il termine “riforma strutturale” che, dice lui, in tempi recenti ha significato soprattutto il trasferimento di potere d’acquisto dai più deboli agli speculatori. Vogliamo fare un passo in più? Ricordiamoci allora che in Italia prima dell’euro non si parlava proprio di “riforme strutturali” (che significano precarietà – pardon, mobilità – del lavoro, perdita di potere d’acquisto dei lavoratori – pardon, flessibilità dei salari). Il perché è chiaro: gli aggiustamenti macroeconomici allora non dovevano inevitabilmente passare per il mercato del lavoro.

L’approccio di Mundell non è ideologico: Mundell non dice che i salari devono essere flessibili e i lavoratori devono essere “mobili”. Dice solo che se non lo sono, allora è meglio non costituire una unione monetaria. Il problema di Mundell non è “vendere” il paradigma della “flessibilità” (nel 1961 non se ne parlava), è solo capire in quali condizioni un’unione monetaria è sostenibile.

L’approccio di Maastricht viceversa è ideologico. Adottare una moneta unica in un’area nella quale essa non è sostenibile impone surrettiziamente e ideologicamente ai paesi membri una rincorsa affannosa dei requisiti necessari (flessibilità, mobilità, ecc.), presentati come mero dato “tecnico” e non come esplicita scelta politica (e quindi sottratti a un reale dibattito democratico). Non è un caso se i governi che ci hanno imposto l’euro sono passati alla storia come governi “tecnici” (altra parola di cui diffidare).

Il crollo del muro

La crisi dell’euro è il crollo di un muro ideologico: un secondo muro di Berlino, eretto a difesa della competitività tedesca e dell’ideologia della flessibilità, travolto non tanto dai “mercati”, quanto dall’assenza di razionalità economica. Da anni gli economisti avvertono che nell’eurozona non esistono le condizioni per la sostenibilità di una moneta unica. I politici hanno proceduto per la loro strada, e ora devono gestire le conseguenze della loro scelta. Dare la colpa a generici altri (i “mercati”) non li aiuterà.

Agli elettori di sinistra italiani l’adesione all’euro è stata venduta come una vittoria della loro parte politica, dettata dal bisogno di evitare all’Italia il destino dell’Argentina. I dati mostrano che l’Argentina è incorsa in una crisi debitoria a causa della perdita di competitività determinata dalla “dollarizzazione” della sua economia, esattamente come la Grecia è incorsa in una crisi dopo l’“euroizzazione” della sua economia. L’euro è stato causa, non rimedio.

La teoria delle zone monetarie ottimali implica che l’euro è stato una vittoria politica di chi desiderava che in Europa gli aggiustamenti macroeconomici si scaricassero integralmente sul mercato del lavoro (traducendosi in “lacrime e sangue”). Vi sembra una vittoria della sinistra?

Un’analisi seria delle vie di uscita parte anche dalla risposta a questa domanda.

Fonte: http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Se-cade-anche-il-muro-dell-euro-4411