Arroganza, alpinismo e la filosofia di Michelangelo

Ieri mi sono imbattuto per caso in un’intervista a Daniele Bernasconi, presidente dei Ragni di Lecco, di ritorno da una missione scientifico-alpinistica in Nepal. Riporto la parte su cui mi interessa riflettere. Si parla del Campo Base dell’Everest:

Era la tua prima volta al campo base dell’Everest. Come l’hai trovato?

Uno zoo. Per l’enorme quantità di persone, di diversa provenienza e con diverse aspettative, e l’altrettanto grande quantità di staff che deve supportarle, da cui deriva il continuo via vai di portatori e carovane di yak che portano su cibo e portano via rifiuti. Quando arrivi non ti immagini un bordello del genere, poi mentre sei al base vai a fare qualche passeggiata e ti rendi conto del campionario di umanità che si trova lì ed è impressionante. L’altra cosa che mi ha stupefatto è la velocità con cui è stato portato via tutto quando è finita la stagione. Non vedono l’ora di andare via sia che abbiano fatto la cima sia che non l’abbiano fatta. Gli alpinisti sono i primi, ma anche gli sherpa non vedono l’ora di tornare a valle. In pratica, prima c’erano 400 persone e poi in 3 giorni sono spariti tutti, uno dopo l’altro. Bastava mezza giornata per smontare un campo base, poi si dileguavano.

In generale l’impressione è negativa o positiva?

Piuttosto negativa. O meglio, diciamo che è un mondo a sé, volendo essere generosi. Il 95 % delle persone che sono lì non sono nemmeno alpinisti. Si intrecciano ambizioni, lavori, persone così diverse che sembra un posto lunare, a tratti fa paura.

C’è stata una grande azione di soccorso sul Lhotse mentre ti trovavi lì. Cosa hai visto?

E’ successo proprio quando siamo tornati al campo base, dalla Piramide, per la finestra di bel tempo in cui volevamo provare la cima. Siamo andati a salutare le due spedizioni spagnole, quella di Edurne e quella “composita” di Juanito e gli altri. Lì abbiamo saputo che c’era il soccorso in atto, ma le notizie erano confuse. So che sono scesi tutti piuttosto distrutti, tranne Carlos Soria. Le opinioni possono essere varie, soprattutto dovrebbe esprimerle chi conosce i dettagli. Io posso dire che ho visto molto individualismo, e che non si dovrebbe ridursi così per una salita. Non te lo ordina il dottore.

Si è parlato anche di un rapporto difficoltoso con gli sherpa per diverse spedizioni.

Come dicevo prima quel campo base è un ambiente strano, particolare… E’ la prima volta che io ho a che fare con gli sherpa. A Colle Sud abbiamo fatto un gran lavoro di squadra. Ma guardandomi in giro ho visto che sia tra gli sherpa che tra gli alpinisti ci sono persone brave e meno brave, forti e meno forti, disponibili e meno disponibili. Il fatto che girino tanti soldi, che l’aspetto commerciale sia così invadente, fa sì che capitino degli screzi.

Le parole in neretto sono mie sottolineature che mi sembra evidenzino alcuni aspetti importanti. Intanto mandano in frantumi il mito di chi da casa vive il campo Base dell’Everest come quel luogo mitico da cui partono eroi della contemporaneità pronti a sfidare le asperità della montagna. Pronti anche ai sacrifici più estremi pur di raggiungere la cima in una sorta di estasi mistica che unisce l’introspezione e il viaggio interiore allo slancio verso l’alto. Verso il divino.

Cazzate.

Il campo base dell’Everest è quanto di più simile a un centro commerciale di periferia si possa trovare così in alto. Dove piccole avidità e giochi meschini si alternano a rari episodi di umanità e attenzione per l’altro. La letteratura alpinistica è stracolma di aneddoti e storie di questo genere. Chiunque ci vada racconta questa cosa. Eppure ogni anno l’orda che si affolla sotto la Ice Fall più famosa del mondo aumenta sempre di più. Dal lato cinese le cose non vanno molto meglio. Finora è stato più complicato raggiungerlo ma anche la Cina inizia a comprendere bene cosa ci sia in ballo. Ovvero uno dei business del futuro. Che tutto sommato è molto in linea con i tempi che corrono. E con tutti i business del presente e del recente passato.

Pochi alpinisti. 95% di staff. Individualismo. Via veloci appena finito. Gli alpinisti sono in primi. Le parole d’ordine sono quelle dello shopping. Basta navigare un po’ la rete per rendersi conto che non sono poche le agenzie che offrono a prezzi fra i 48.000 e i 65.000 dollari la vetta più alta del mondo. Selezione per censo dunque. Come quella da Tiffany. Non ci vogliono abilità particolari per comprare un anello di diamanti. Figuriamoci per scalare una montagna con due sherpa di supporto, 2000 metri di corde fisse, bombole d’ossigeno e campi alti allestiti. In vetta praticamente ti ci portano a spinte.

Nonostante disapprovi questo scenario la cosa non mi meraviglia affatto. La logica che ispira lo zoo del campo base dell’Everest è la stessa che regna sovrana in altri luoghi e in altri momenti dell’odierna cultura dominante. E’ la stessa che auspica la realizzazione di impianti sciistici ovunque. Funivie che conducono dove altrimenti sarebbe duro e faticoso arrivare. Scorciatoie di ogni genere per raggiungere risultati in breve tempo. Per consumare in fretta, ricevere una soddisfazione rapida, fuggire e tornare nella tranquillità del conosciuto. Ma soprattutto poter raccontare. Poter dire io c’ero. Io l’ho fatto.

Per carità nulla da eccepire sul ruolo che la vanità umana ha avuto e continua ad avere nello spingere individui dotati oltre i limiti stabiliti. Creando alle volte nuove opportunità anche per gli altri.

Tuttavia la domanda che mi pongo è: che senso ha pensare di poter acquistare con il denaro una sensazione? Avere la consapevolezza di non essere all’altezza di una sfida (con sé stessi o con l’ambiente è solo questione di punti di vista personali) e barare per ottenere il risultato?

Ma alla fine la risposta sta tutta nelle premesse. Gli pseudo-alpinisti dell’era del commercio delle emozioni hanno perso di vista quello che per me rimane il succo vero dell’avventura umana. E non solo dell’alpinismo. Non è nel risultato ma nel processo che vi conduce la vera soddisfazione. Non è nella vetta ma nella via. Ed è nella capacità di mettere in conto il fallimento che sta la differenza fra chi vuole stare nella montagna e chi vuole stare a casa con il trofeo sul camino. Ma è ovvio, per fare questo bisogna essere mentalmente disposti al viaggio. Al distacco. All’abbandono di ciò che si conosce per mettere i piedi nell’ignoto. Ma soprattutto bisogna avere l’umiltà di puntare al meglio di noi stessi. Non al record. Non alla competizione con tutti. Non alla vetta più alta del mondo. Ma alla via più “alta” di noi stessi.

Di quelle 400 persone che invadono il ghiacciaio del Khumbu ogni stagione quasi nessuno sa cosa resta dopo il proprio passaggio. Dopo che l’arroganza del “voglio tutto subito e senza fare fatica” ha attraversato quello che era uno dei pochi luoghi remoti e intatti rimasti sul nostro pianeta.

Molti anni fa – era il 1993 – sono andato nella Valle del Khumbu. Sono salito fino a 6200m. L’Everest e il Lhotse erano lì davanti. Era un febbraio fresco e limpido. I monsoni lontani e le due piramidi sembravano a portata di mano. C’era molta gente sui sentieri. Molti yak carichi di grandi bidoni blu. Non era raro incontrare qualche locale con la classica gerla e la fascia frontale che trasportava carichi impressionanti. Una volta ne ho visto uno con una lavatrice. Cosa ne facesse o dove la portasse non ho idea. Ma andava spedito. La forza del popolo della valle, quegli sherpa che ormai sono diventati sinonimo di “portatori”, ha solcato lo spazio e la rigidità semantica delle lingue. E già questo ci dice qualcosa.

Se chiedi all’uomo della strada chi è stato il primo alpinista a salire l’Everest le risposte sono in genere due? “Non ne ho idea” o “Edmund Hillary”. Nessuno o quasi, fuori dall’ambiente alpinistico, si ricorda di Tenzing Norgay. Se poi si passa alle salite successive, alle nuove vie aperte con questo o quello stile, alle montagne minori, gli sherpa tornano ad essere quello che l’uso linguistico li ha resi: portatori.

Nel 1993 a Kathmandu comprai “Fire of Himal” di Ramesh Raj Kunwar, un saggio di antropologia che racconta, in maniera talvolta discutibile, la cultura degli sherpa del khumbu. Poi camminando per le valli sopra a Lukla mi sono reso conto che il fuoco rituale non era l’unico che ardeva in quei luoghi. Per soddisfare i bisogni di cibo e confort di vario genere per la legione di alpinisti e trekker che di anno in anno invadono la loro terra, gli sherpa hanno raso al suolo quasi tutta la vegetazione. Trasformandola in carburante. E ciò ha degradato oltre il punto di non ritorno gli equilibri idrogeologici della regione. I pendii delle montagne franano più spesso. Ma soprattutto, quando i turisti se ne vanno, agli sherpa non rimane legname per costruire case, scuole, ponti. Da usare per i loro bisogni. Certo, rimangono i soldi del turismo. Concentrati spesso nelle mani di quei pochi che si interfacciano con l’orda di cacciatori di adrenalina. Con i quali si compra carburante che inquina i fiumi. Materiali da costruzione che sostituiscono quelli tradizionali e che sono nocivi per la salute. E così via.

Portatori in una terra devastata. Questo era il presente della fiera popolazione della vale del Khumbu nel 1993. Oggi qualcuno mi dice che hanno addirittura costruito una strada carreggiabile per raggiungere il famigerato campo base. Se così fosse lo scenario è ancora peggio di quello che immagino alla luce del peggioramento verticale degli ultimi 18 anni.

In conclusione gli alpinisti di oggi, ma soprattutto gli pseudo-tali, dovrebbero rendersi conto ogni tanto delle inaccettabili contraddizioni del loro agire. Cercare sensazioni, qualunque esse siano, tramite il contatto con un ambiente selvaggio non ha senso se li si ottiene con scorciatoie da centro commerciale e lasciando dietro di sé la devastazione. Contribuendo di fatto alla distruzione dello stesso ambiente senza il quale quelle sensazioni sono impossibili anche da ricercare.

In sostanza l’alpinismo dovrebbe ritrovare, dal neofita all’élite dei super climber mutanti, l’autenticità insita nella filosofia artistica di Michelangelo: “Mi chiedono cosa metto nella mia arte per scolpire: non metto nulla, levo il superfluo. Dentro la pietra c’è la statua”.


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