E tu dove glielo metteresti?

Stamattina partendo da questa meravigliosa fotografia con un gruppo di amici abbiamo discusso sulle questioni che solleva. Per inciso, sembra che il cartellone pubblicitario sia comparso a Bari, o a Taranto.

L’indignazione – non solo femminile – rispetto ai contenuti è abbastanza ovvia e prevedibile. Ma a prescindere dalla prima reazione emotiva mi piacerebbe scendere un po’ nel dettaglio per capire di cosa parliamo.

A una prima lettura risulta addirittura difficile capire quale sia il prodotto in vendita. Poi notando il sole con la scritta dentro si finisce per capire che si tratta di tatuaggi. E la domanda quindi sarebbe: “A una bella ragazza come quella della foto dove lo metteresti il tatuaggio?”. Sulle natiche? Su una tetta? Vicino all’inguine? Tanto le alternative di posizionamento, quanto il doppio senso del messaggio alludono alla componente sessuale. Non si tratta di un’allusione velata. Nemmeno esplicita. Solo volgare. E l’organizzazione degli spazi, la scelta delle foto, la qualità della grafica sono arrangiate con poca logica e risultati pessimi. Sarebbe interessante riuscire a calcolare la “redemption” di questo cartellone. Ovvero di quanto ha incrementato le vendite dello studio che lo propone.

La prima reazione, si diceva, soprattutto da parte di un pubblico più attento è di repulsione, rifiuto. Al massimo uno sghignazzo un po’ volgare da bar. Ma di certo non il piacere estetico o i livelli di seduzione che ti spingono ad acquistare un prodotto o un servizio.

E’ evidente quindi che il pubblico a cui è rivolto il messaggio non è quello più sensibile e attento. Ma quello disposto a ricevere quel messaggio. Quello abituato a cibarsi di volgarità e di allusioni spinte al sesso. D’altra parte la pubblicità per “arrivare” deve usare il linguaggio di chi la “riceve”. Altrimenti il messaggio non viene decodificato né cognitivamente né emotivamente. E l’effetto seduttivo è vanificato. Così come l’investimento. Non voglio cedere alla tentazione di buttare lì stereotipi ma qualche tipologia di recipient di questo messaggio in mente ce l’ho.

Certo, ci si può indignare. Si può sostenere che messaggi come questo andrebbero banditi. Che dovrebbero esserci leggi che proteggano la mercificazione del corpo femminile. Si potrebbe puntare il dito contro il solito “sistema” (in questo caso quello “pubblicitario”) dimenticando che il primo avallo a quel sistema siamo proprio noi a darlo. Lasciandoci sedurre. Acquistando in maniera inconsapevole. Non penso infatti che la strada della condanna fine a sé stessa o dell’appello a forze superiori sia necessariamente quella più giusta.

A guardare bene, infatti, dovremmo anche riflettere su quanto è “volgare” il cittadino medio a cui quel messaggio è destinato. La pubblicità, infatti, in casi come questo, tende ad assestarsi sui grandi numeri. Tende a proporre messaggi condivisibili da parte di ampie fette di pubblico e su un linguaggio testuale e iconografico che sia riconoscibile. E basta guardarsi intorno per capire come la fetta sia oggi molto estesa. Anche grazie alla “formazione” mediatica – non solo televisiva – che crea il bisogno di volgarità, lo diffonde e persuade il lettore/spettatore che si tratti dell’unico parametro di riferimento. Poi tocca alla pubblicità soddisfare quello stesso bisogno, utilizzandolo per convincere ad acquistare. Basta pensare alle riviste di auto, ai profumi, a Lancio Story, ai periodici in crisi. Qualunque cosa purché l’accenno sia “sessuale”, ci sia l’allusione, magari un po’ comica che non guasta. 

In quest’ottica il corpo della donna viene completamente decontestualizzato. E diventa la materializzazione del concetto di “desiderabile”. Qualunque cosa desiderabile – auto, avventura, tatuaggi – lo è ancora di più se lo si riesce a legare in qualche modo al corpo femminile.  Quasi che quest’ultimo rappresenti il massimo stimolo del piacere per il consumatore di pubblicità. Se non fosse per la volgarizzazione, la banalizzazione e l’ubiquità di questi messaggi, per una donna potrebbe anche essere lusinghiero.

L’opinione più diffusa è quella che vuole questo come il risultato della mercificazione di ogni cosa, dovuta al combinarsi del liberismo più sfrenato con la cultura machista. Il maschio dominante ridurrebbe così la femmina e il suo corpo a merce disponibile al pari delle altre. C’è molto di vero. Ma la realtà è in genere più complicata delle facili equazioni.

Se infatti l’equazione fosse sufficiente a spiegare il fenomeno si dovrebbe presupporre che il pubblico destinatario di quel messaggio sia solo maschile. La prima impressione è che sia così. “E tu dove glielo metteresti?” sembrerebbe una domanda impropria rivolta a una donna. L’unico modo per verificarlo oltre ogni dubbio sarebbe con i dati alla mano di chi frequenta quel centro, soprattutto a valle della campagna pubblicitaria. La mia impressione è che la realtà sia diversa. E la cosa ha a che fare tanto con il “desiderabile”, quanto con la “riconoscibilità” e l’”identificazione”.

E’ vero che la bella donna abbronzata con il tatuaggio impersona l’oggetto del desiderio per un certo pubblico maschile. E il processo di decodifica funziona più o meno così: “Se anche io mi faccio quel tatuaggio posso accedere a quell’”ambiente”. Sarò più simile a lei e potrò sognare di averla”. Riconoscibilità, dunque. E il suo sottoprodotto più evidente: l’appartenenza. Che conferisce sicurezza, tiene al sicuro dall’incertezza, dal non conosciuto. Sembrerebbe paradossale, ma quello stesso messaggio ha effetto anche sulle donne. Basta guardarsi intorno e osservare in quante “indossano” tatuaggi. In quei punti specifici. Le donne nella fattispecie decodificano il messaggio in maniera diversa a partire dall’identificazione. “Se mi faccio il tatuaggio assomiglierò a lei, che è l’oggetto del desiderio dell’altro sesso”. E questo apre un bel fronte di riflessione sul ruolo che le stesse donne hanno nel diffondersi e nel perdurare di questo utilizzo volgare dell’allusione sessuale al consumo del corpo della donna come merce.

Al di là delle riflessioni più o meno colte la domanda che a questo punto mi faccio è: cosa fare? Come intervenire per raddrizzare il tiro? Sarebbe facile infatti lasciare libero il campo a certo “bacchettonismo” repressivo. Alla logica proibizionista di cui si nutre la stessa religione della merce. Proibire per legge il consumo di qualcosa è infatti il modo migliore per aumentarne a dismisura il consumo illegale. E di conseguenza i profitti per chi la traffica. No. Non sono dell’opinione che proibire l’utilizzo del corpo femminile come spunto di seduzione pubblicitaria sia la strada giusta.

Visto che anche la pubblicità risponde a tutte le regole di qualunque messaggio audiovisuale mi lascerei aiutare da uno dei geni del nostro cinema neorealista. La tesi de “La verità” di Cesare Zavattini era abbastanza esplicita. L’unico modo per raccontare filmicamente la verità non è nel massimo di dissimulazione ma nel massimo di sincerità. Svelando la bugia. La macchina da presa non va nascosta dando l’illusione allo spettatore di trovarsi difronte a una finestra sulla realtà. Bisogna rivelarla, guardarci dentro, far vedere la sorgente delle luci. Ovviamente il cinema ha rifiutato la rivoluzione zavattiniana e al bivio ha preso l’altra strada. Un po’ come la recitazione difronte al bivio fra Brecht e Stanislavski.

Il messaggio pubblicitario va dunque svelato, decostruito, reso ciò che è; un testo fatto di immagini semoventi, musica, recitazione e lettering. Come si insegna a leggere le lettere e a interpretare testi, a scuola bisognerebbe insegnare ai bambini a smontare l’illusione. A leggere una pubblicità per ciò che è. A capire e disinnescare i meccanismi di creazione e soddisfacimento dei bisogni. A comprendere i percorsi della seduzione. Una volta fatta a pezzi la pubblicità non è più convincente dei pezzi di una macchinetta a pile. E’ solo così che si creano soggetti critici, in possesso degli elementi di decodifica e in grado di “rifiutare” il messaggio.


10 responses to “E tu dove glielo metteresti?

  • buzz

    Ah beh, nelle scuole se è per questo non si insegna proprio nulla di tutto ciò. Anzi, non si insegna nemmeno il concetto base di pensare come il target che vuoi raggiungere con il tuo messaggio.
    Almeno non a livello di massa, come in una scuola professionale per grafici pubblicitari. Ti insegnano al più il linguaggio base per decodificare l’aspetto estetico.

    Da’ltro canto quanti leggeranno il tuo articolo, o semplicemente si porranno il problema, pur venendone a conoscenza, semplicemente allontanati dalla lunghezza e dai concetti esposti, troppo complessi?

    In questo caso l’approccio al target è greve. Si presume che se ci fosse dietro un raffinato pensatore la volgarità sarebbe cercata, in uno sforzo di immedesimazione culturale con i potenziali compratori dell’oggetto feticcio in vendita. Ma la bruttezza intrinseca della campagna mostra un lavoro da dilettanti, espressione della medesima cultura cui si rivolge.
    Rozzo ma efficace, probabilmente.

    Efficace perché attira l’attenzione con i corpi esposti e una domanda che è più di un doppio senso. Ma contemporaneamtne non mette in mostra l’oggetto che vuole promuovere. Questo è rischioso verso uno spettatore disattento, che potrebbe non scoprire cosa si sta pubblicizzando. Per contro costringe lo spettatore curioso a un lavorìo mentale che va oltre la mera attenzione visiva che si deve ad un bel corpo e ad una frase equivoca. Tale che una volta scoperto che si tratta di tatuaggi, difficilmente se ne scorderà.

    Il punto è: se una campagna del genere è efficace, ovvero se il mercato la promuove, è lecito limitarla e se sì in nome di cosa? Perchè se la campagna fosse inefficace allora il problema non si porrebbe.
    Ma, e la pubblcità da sempre lo dimostra, il corpo femminile e l’allusione erotica fanno vendere.

    Il mercato va regolato? Oppure in nome del liberalismo lasciare che si autoregoli?

    Io sono per delle regole. L’autoregolazione ho riscontrato che non funziona. Ma non ho ancora risolto il problema dovrebbe regolare i regolatori.

  • Tengri

    E’ proprio per risolvere il problema di chi regola i regolatori che nemmeno io so come risolvere (https://whitetraces.wordpress.com/2011/07/27/chi-controlla-i-controllori/) che propongo la via della liberalizzazione. Come per droghe, alcool, e via dicendo. Che poi chiamarla così mi fa pure un po’ schifo. Ma lo faccio viso che questo è il termine che si usa.

    Preferisco consegnare gli strumenti per scegliere che fissare tante regole. Che poi necessitano di sforzi assurdi perché si riesca a farle rispettare. Quando i comportamenti sono interiorizzati la legge è quasi superflua.

    Non è un caso infatti che la scuola non insegni nemmeno a decifrare messaggi base. Le pecore analfabete sono più ubbidienti 😉

    Per carità poi, questo è il mondo perfetto verso cui tendere. Il mondo reale del formicaio e altra roba. E per quello spesso non basta manco la frusta 🙂

  • silvio

    ciao mario, bell’articolo !!!

  • buzz

    la via della liberalizzazione non funziona. o meglio, è completamente inutile porsi domande su argomenti etici se si è per lasciare che le cose vadano da sole e si autoregolino.
    l’autoregolazione di un sistema non ha nulla di etico a meno che non si identifichi l’etica con lo stesso sistema autoregolato, ovvero “ciò che è reale è razionale”.

    la natura, si autoregola, ma non è etica.

    • Tengri

      E infatti il termine liberalizzazione non funziona. Non intendo “sistema lasciato a sé stesso” punto. Il mercato non si autoregola. Lasciato a sé stesso marcia dritto verso i cartelli e la speculazione. Con soggetti educati e su temi più circoscritti c’è da sperare che qualche miglioramento lo si possa ottenere.

      Non dico che le norme non ci devono essere. Dico che quando il comportamento e il principio etico che lo regola sono interiorizzati le norme sono “per quei soggetti” superflue.

      Faccio un esempio. La legge sul caso. Io me lo sono sempre messo. L’asfalto è duro. Se cado posso morire. Comportamento interiorizzato. Quando hanno fatto la legge per me era superflua. Principio etico: se evito di farmi male indossando il casco graverò meno sul sistema sanitario. Il che libera risorse per chi ne ha veramente bisogno.

      Ciò non toglie che sarei a favore di una legge di responsabilità. Se non porti il casco e ti fai male i sodli per le tue cure ce li metti tu. Stesso su droghe, alcool, fumo.

      La natura si autoregola ma non è etica. Certo. In quel caso è solo l’equilibrio che conta. Ciò che lo mette a rischio viene semplicemente eliminato. Le culture umane dovrebbero servire a recuperare quegli equilibri attraverso il trinomio libertà-responsabilità-punizione del reo. Nelle piccole comunità (i numeri contano) le leggi non vengono mai espresse formalmente. I comportamenti corretti per l’equilibrio sociale fanno parte del bagaglio di ognuno. E basta la minaccia della disapprovazione del gruppo a cui si appartiene per scoraggiare comportamenti antisociali.

      In definitiva succede anche in un condominio. Alla fine non pisci per le scale non perché c’è una legge che te lo vieta. Ma perché lo vivi come un comportamento riprovevole.

      La devianza fisiologica però c’è sempre. E quella va solo repressa attraverso norme e procedure esplicite e ben chiare a tutti i membri della comunità.

  • Cle

    Ciao a tutti.
    L’analisi è molto interessante.
    Vi porto la “testimonianza” di una persona che nella zona di BA e TA ci vive e ci ha sempre vissuto. La volgarità in questo caso non è tanto nel pubblico diffuso o ipotetico destinatario del messaggio, quanto proprio nel titolare dell’azienda che da decenni ci “delizia” con campagne pubblicitarie una più cretina dell’altra e spesso volgari come questa.
    Intanto la sua è una delle “aziende” più fiorenti in Puglia (ahinoi!!!).
    Il fatto è che siamo talmente assuefatti ai cartelloni giallo oro che ormai non li notiamo nemmeno più, era necessario sbalordirci del tutto! Anzi: farsi notare fuori regione (cosa che hanno ottento).
    che orrore!
    e che vergogna la siacquetta che s’è prestata.

    • Tengri

      Ciao Cle e benvenuta.

      Se però quell’azienda è, come dici, “fiorente” vuol dire che qulacuno da quel signore ci va a farsi fare i tatuaggi. E vuol dire anche che quelle campagne hanno l’effetto che cercano. I clienti infatti aumentano.

      Stupire e incuriosire è uno degli obiettivi della pubblicità. Ma per ottenere risultati anche questa “tecnica” deve trovare terreno fertile. Con questo non voglio dire che a Bari o a Taranto la gente sia “volgare”. Voglio solo dire che (come in molte parti del nostro paese) questo tipo di messaggi fa breccia. Arriva. E man mano che passa l’allenamento alla volgarità progredisce. Il fatto che non ci fate più caso è sintomatico. Sta diventando normale.E come per una medicina, la dose deve aumentare per creare un nuovo “effetto”.

      In questo processo al ribasso il cambiamento lo può fare solo l’utente. Smettendo di farsi “sedurre” da questo messaggio. Stufandosi. Comprando un altro prodotto. Come per la televisione tutti noi abbiamo il telecomando. Basta spingere OFF. Andare altrove. Fare altro.

      Riguardo alla tipa in “vetrina”. Non la colpevolizzerei troppo. Bisognerebbe analizzare prima chi è e cosa fa nella vita. Immagina che sia una studentessa che si paga così gli studi. Io non avrei nulla in contrario. Ha fatto qualche foto ammiccante in costume. E che male c’è.

  • Cle

    PS:
    Giallo oro non fa tatuaggi! Compra e vende oro!
    Ma è evidente che dal cartellone non si capisce! 😉

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